Lo scenario economico che abbiamo
di fronte ci dice alcune cose:
a) non
si tratta di una crisi finanziaria con la prolungata sfiducia reciproca dei
grandi repository di capitale (banche, assicurazioni, fondi) che smettono di
prestarsi denaro l’un l’altro, provocando l’anossia creditizia del sistema
produttivo e il rischio di default degli enti pubblici più indebitati, sul
modello 2008 post-Lehman Brothers o sul modello 2010-2012 post Grecia.
b) si
tratta invece di un formidabile shock di domanda che colpisce, in certi casi
azzerando, i consumi che implicano spostamento e socialità delle persone;
sicuramente trasporti, turismo, ristorazione, spettacolo, ma anche le modalità
di approvvigionamento non vitali, quindi tutta la distribuzione non alimentare,
farmaceutica, informazione, manutenzione/riparazione. La sua natura è pervasiva
e tenderà ad essere più duratura anche quando le crisi sanitarie nei singoli
Stati sembreranno prevalentemente alle spalle per evitare il contagio di ritorno.
c) si
tratta anche di uno shock dal lato dell’offerta con la impossibilità di
produrre una parte consistente di beni e servizi, che peraltro non sarebbe
stato possibile distribuire e quindi vendere al pubblico e la trasformazione di
una parte dell’apparato produttivo verso il committente unico Stato,
esattamente come in una economia di guerra.
L’impossibilità di fatturare e,
quindi, incassare in presenza di flussi in uscita per fornitori, personale,
banche, imposte porterebbe velocemente alla chiusura delle attività, anche in
assenza di fallimento.
Gli Stati quindi si stanno
muovendo per pagare direttamente e parzialmente il personale e i professionisti
tramite gli ammortizzatori sociali o modalità d helicopter money, di sospendere
le rate dei prestiti e di fornire garanzie pubbliche alle banche, di dilazionare
pagamenti fiscali per non creare condizioni di illiquidità prodromiche all’insolvenza.
Dall’altra parte gli Stati si
sostituiscono in termini di domanda per una quota parte della capacità
produttiva in essere o in riconversione e forse nazionalizzeranno grandi aziende
che non riescono a coprire i costi fissi in essere.
Gli Stati però hanno dei limiti
di bilancio, non stampano moneta. Quindi o alzano le imposte, impossibile in
questo momento, o emettono debito che le Banche Centrali o Fondi intermedi a loro
volta finanziati da Banche Centrali o Investitori istituzionali acquisiscono o
garantiscono.
La emissione di moneta delle
Banche Centrali non ha un limite preciso, ma determinato dal suo prezzo relativo
rispetto a merci e titoli, ovvero dal tasso di inflazione che provoca. Se la
moneta è troppa rispetto alla quantità di merci disponibile, i prezzi delle
merci tendono a esplodere sul modello Weimar o Venezuela; se lo è rispetto ai
titoli, i loro prezzi salgono e si formano bolle speculative che possono
esplodere provocando il fallimento a catena dei compratori a debito.
Da Lehman Brothers in poi si è
proprio instaurato questo ultimo meccanismo, passando da una bolla speculativa
a un'altra sui titoli obbligazionari che conta su un gioco a senso unico delle
Banche Centrali che inondano il sistema di moneta per evitare i fallimenti a
domino e recessioni mondiali stile ’29 e che alzano via via il rapporto di
indebitamento degli Stati rispetto alla propria capacità di reddito
contribuendo alla bolla dei prezzi obbligazionari.
Nessuno è in grado di sapere con
certezza a priori se uno Stato indebitato sarà in grado di convincere gli
investitori a continuare a prestargli denaro. Non è una questione di livello, ma
di dinamiche per le quali il debito cresce con il deficit tra entrate e spese e
il tasso di interesse mentre il reddito nominale cresce con l’attività
economica e l’inflazione.
Quindi, le risposte sembrano
obbligate: Banche Centrali che emettono moneta acquistando titoli di Stato che
a loro volta garantiscono banche che prestano all’economia reale, o
direttamente titoli di grandi banche e grandi imprese e Stati che spendono
soldi per evitare le uscite di cassa a imprese e cittadini per un certo tempo e
per indennizzarli quando il periodo si allunga.
Dunque il tempo è cruciale.
Quanto tempo dura questo shock?
Finchè dobbiamo stare chiusi in casa perché il contagio diffuso si trasforma in
una quantità di casi percentualmente bassi, ma in livelli assoluti abnormi ed
eccezionali, che necessitano di attrezzature e personale salvavita dell’ordine
di decine, se non centinaia di volte superiore alle disponibilità iniziali e prevedibili nel breve periodo.
E ai cinici, ricordo che il 5%
del 50% di contagiati di una popolazione mondiale di 7 miliardi di abitanti, farebbero
175 milioni di morti che avrebbero comunque un impatto economico devastante.
Se il punto finale sarà il
vaccino vorrà dire che saranno passati almeno almeno 10-12 mesi. Se, come più
probabile saranno trovati farmaci utili per evitare il ricorso alla terapia
intensiva, l’isolamento epidemiologico sarebbe utile solo per le persone con
patologie croniche e quindi risolvibile con la predisposizione di ampi luoghi
di quarantena che tra l’altro non coinvolgerebbero la gran parte della
popolazione attiva che, quindi, potrebbe tornare alla propria attività.
Incrociamo le dita dunque, sviluppiamo
l’economia di guerra per le mascherine, quelle giuste, non la gran parte di
quelle attuali, per i respiratori, per i disinfettanti, per i reagenti dei
tamponi, e, per l’economia, permettiamo di pompare massima liquidità
permettendole di trattenere il respiro.
Il rimbalzo allora sarà molto molto
consistente, forse generando un fenomeno di overshooting rispetto alla soluzione
di equilibrio con un 2021 o alla peggio un 2022 molto più dinamico di quello
che ci aspettavamo anche prima dello shock epidemico.